126 l'11 settembre

Il tronco di ippocastano era tra noi due,
quel tanto da occultarci la vista reciproca,
non una voce, non un sussulto,
eppure era li di sicuro come sempre,
come un banco di calcare dello Spicchio.
Ne sentivo lo spirito bello e forte,
lui che dalle viscere della terra del Belgio
impartiva lezioni di tecnica mineraria
a quel povero ingegnere con la testa
poi fracassatagli da un masso franatogli addosso.
Non c'erano ostacoli al nostro silenzioso dialogare
per sentimenti ancestrali e un pò scuri
per quella via larga dove le frane e la piena
ti sono addosso come innamorati
della tua pellaccia dura da vendere presto.
Sanvensis vedeva bene che la brezza del solleone
spostava le fronde dei platani e degli ippocastani,
e sentiva quei 60 anni di matrimonio come un prurito
da grattarsi nel silenzio tanto erano profondi
come le tante cose che sono passate sotto i ponti
da quel 15 settembre del 1951.
(11 settembre 2011, davanti l'osteria La Rocca)

Voci

Lascio la risacca bizantina scura
e m'inerpico sui banchi di calcare
con questa matita non mia
che fissa le mie idee sulla carta.
Quella voce mi accompagna da un pò.
Che sia là, dove non vedo?
Che sia intorno come l'aria?
Quella voce innata segna la via larga
e m'allieta nei miei gravi di sempre.
(23 maggio 2011)

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Urta la balaustra strisciando il lastrico
mentre sfreccia storto e s'erge sulle staffe.
Non c'era posto per tutti,
dicono che l'erba era molla,
e che Albertino (il barbone)
era morto lì poco fa.
Si rierge sulle staffe stanco
e sprofonda sordo in sella
senza abbassare la visiera del casco.
Si muove qualcosa in questo posto
mentre apprestiamo basse vergogne
esponendole al vento dell'est.
Hai fatto il biglietto?
(7 maggio 2011)

Una stanza (la stessa)

Sempre buia, con la tapparella bassa.
Che sia per non far uscire la vita andata?
Che sia per non far volare al vento i ricordi?

Quei fiati che s'incontravano non ci sono più
nemmeno sotto le coperte leggere di primavera,
nemmeno nell'aria alta delle note mute.

Quel poco che avevo è oggi una menzogna
che s'insinua con calma nelle pieghe del pensiero
che mente essa stessa nel girare a tutta birra.

C'est la vie monsieur! La via larga della vita,
che ti plasma come fa una norma dimenticata
che dal cassetto se ne torna al tuo specchio scuro.
(16 aprile 2011)

A un passo dai 58

Rattoppiamo quel pò d'intonaco caduto
e ad ogni generazione tiriamo su una tettoia
che quella dopo chiuderà per far posto ai nipoti.
Se va bene non sappiamo fare altro e ce ne vantiamo
mentre il fiume scarraccia la campagna con le piene,
mentre gl'inverni passano il testimone alle primavere.
Abitiamo da millenni gli stessi posti come una novità,
leggiamo Catullo e Seneca come risorsa insieme al cielo,
mentre ci affiancano gli animali anche loro curiosi.
Se abbiamo sistemi filosofici è solo per occupare la mente,
che senza il fare dilagherebbe per la pazzia dell'umanità,
una macchina il cui motore rulla a tutta forza senza scopo.
Che dire dei nostri fratelli cani, cavalli, coccinelle, cammelli?
Che non abbiano anch'essi un sistema filosofico
per le lunghe giornate invernali nelle tane millenarie?
Non ci sono elementi per saperne di più mentre invecchiamo.
Non ci sono elementi a vista in quel dilagare d'infinito.
Non possiamo che navigare dopo la gettata al mondo.
Nella piena di un fiume che non si ferma mai
per soccorrere alcuno, come per guardarlo negli occhi
arriva solenne la fine che tutto porta via nella piena.
(21 febbraio 2011)

Una camera

Dopo una settimana era ancora buia la mia camera
né ombre, né raggi, né un qualcosa per sperare
e l'aria scura era ancor più intrisa di pensieri rimestati tante volte.
Un quadro mio di fattura poco rinascimentale
Neruda e Marcuse ora in fila con gli altri
e quella persona interrotta con la sua aria languida che chiama ancora.
E il tutto, che fa girar la testa anche a un elefante inginocchiato,
e anche a me distratto che ho aperto ignaro, come sempre, quella porta,
bussa alla tempia come un ricordo che non se ne sa andare.
E il Babbo non più calcareo ma giunco d'Appennino
pensoso, eretto, che mi bacia come un bambino
e mette in fuga le ombre degl'inverni.
(13 febbraio 2011)

Una stanza

Era buia la mia stanza oggi quando sono entrato,
non un filo di luce, Neruda di traverso sopra gli altri,
la foto di nonno e bisnonna di piatto,
le infradito estive per la notte sotto al letto.
Ma era buia in modo diverso, troppo netta, inattesa
contro l'aria tersa luminescente a specchio sulla neve,
era buia ad un affetto, ma era lì in attesa di qualcuno
che squarciasse il vuoto per infilarci un altro sogno inutile.
L'ho richiusa piano e perplesso, non sapevo cosa fare.
Era vuota la mia stanza anche del me che era altrove.
C'erano i sogni adolescenti intrisi d'aria scura.
C'erano ancora gli oggetti che sistemo ogni agosto,
e la fantasia, il progetto, la malinconia di ieri e di oggi
e non aspettavano nessuno, sparsi e dimenticati,
ma vivi per conto loro danzavano squinternati
a menarsi pacche sulle spalle e a sfottersi ebbri,
che tanto poi sono già nell'oblio dei secoli,
come di Giandomenico nessuno ricorda.
(6 febbraio 2011)

Un palo

Ritto sull'angolo del parco un palo reggeva il filo
che reggeva piccioni appollaiati a godersi il sole
del mattino lucente e freddo di febbraio.
Quelli non correvano, non pensavano, non vedevano
nemmeno noi nelle macchine schizzare al lavoro,
forse non pensavano che alla notte gelata appena andata.
A loro il tempo non passava sull'orologio, né sul da farsi,
a loro il tempo scorreva nello stomaco - gran pensiero! -
che sarebbe arrivato tra poco a spingerli nel volo.
Noi, con il nostro peccato della conoscenza,
a domandarci una gran quantità di cose inquieti,
una smania di domani che è cominciata col fiume della vita.
Che ci trasporta nell'inferno della crescita,
che non può che darci bidonate a ripetizione,
stanchi perfino di vedere la meraviglia dell'immanenza.
Loro, eterni perchè senza paura della morte
perché beati del nulla e dell'eterno e, tuttavia, presenti
alle scaramucce della ricerca di un verme.
Loro così urbani e forti che assistono al nostro vaneggiare,
loro sul palo della luce, noi a strisciare radenti
ancorati al nostro grave di pietà per fugare la morte.
(4 febbraio 2011)

Una strada

Infine, mi rodeva sul fianco con un occhio ancora
attento a stare in cunetta a cento all'ora.
Già! Ora con i piedi nel fango sulla dirittura d'arrivo
in vista del traguardo che s'allontanava tardivo.
Férmati! Vedi meglio le tue prerogative come
le tue carognate che il fiume induce tutti a fare.
Férmati ancora! Non è la tua andata.
E se sei nato rotondo non morirai quadrato.
Ho chiesto al vetraio di prima per dove ho da guardare.
Che diamine! Davanti! Per dove devi andare!
Ma non c'è rotta costì! Non c'è l'ombra di un passaggio
e non c'è nemmeno un paradiso arcano per l'assaggio.
Guarda meglio! - mi dice Ludwig - Non esser sempre incerto!
Vedi, può darsi che l'ombra offuschi uno spazio semiaperto!
(23 gennaio 2011)

Uno specchio

Se mi guardo allo specchio non mi vedo,
perchè vedo lo specchio solo
e un pò di sfumo alle mie spalle.
Se mi guardo allo specchio non vedo neanche quello,
ma un'ombraggine che gli passa attraverso
e ingrigisce in pochi passi.
E io nello specchio non ci sono né con la barba né senza,
forse la camicia, ma io certo no, non ci sono nello specchio,
è come se si disfacesse il riflesso che non mi arriva agli occhi.
Forse sarò dietro lo specchio, cioè al di là, ma non sono sicuro,
mi pare che non sono né qui né là.
E poi, come posso saperlo se c'è lo specchio di mezzo?
Al diavolo lo specchio! Tanto non serve nemmeno per radermi
perchè la barba la tengo incolta,
e non ho rimpianti né per lo specchio né per la barba.
E chi mi dice, poi, che lo specchio è uno specchio vero?
Chi mi dice che non è una fregatura del vetraio dove l'ho comprato?
Non funziona bene, non ci vedo davanti, dove sono io,
né ci vedo dopo lo specchio, dove non c'è alcuno,
forse perchè c'è la nebbia, e se c'è lei
non può esserci proprio nessuno al posto suo.
( 2 gennaio 2011)

Versione per concorso di poesia dialettale (non presentata)
Se me guardo a lo specchio non me vedo
perché vedo lo specchio solo e ‘npò de sfumo dietro la schina.
Se me guardo a lo specchio non vedo manco quello
ma n’ombragine che ce passa dentro e sbigìsce ‘n tre falcate.
E io n’te lo specchio non ce sto né co la barba né senza,
forse la camicia, ma io no de sicuro, non ce sto n’te lo specchio,
è come se se sfascia la figura che non m’arriva n’te i occhi.
Po esse che sto dietro lo specchio, cioè di là, ma non so sicuro,
me pare che no sto né qui né là.
E poi, come fo a sapello se c’è lo specchio de mezzo?
Al diavolo lo specchio! Tanto non me serve manco
pe sbarbamme perché la barba la porto rustica,
e non c’ho rimpianti né pe lo specchio né pe la barba.
E chi me dice, poi, che lo specchio è no specchio vero?
Chi me dice che no n’è na fregatura del vetraio do l’ho comprato?
Non funziona bene po esse perché c’è la galavergna sott’a sta cerqua,
e se c’è lia non ce po esse proprio nisciuno al posto suo.